Un capitano (Italian Edition) by Condò Paolo & Totti Francesco

Un capitano (Italian Edition) by Condò Paolo & Totti Francesco

autore:Condò, Paolo & Totti, Francesco [Condò, Paolo & Totti, Francesco]
La lingua: ita
Format: epub
editore: RIZZOLI LIBRI
pubblicato: 2018-09-26T22:00:00+00:00


mia salute, ho sempre sopportato. Nessuno mi ha mai sputato, invece: se fosse

successo gli avrei staccato la testa, perché la sola idea mi dà il voltastomaco. Il che spiega perché fino alla visione del filmato non ci volevo credere, e perché

poi l’abbia considerata la massima vergogna della mia vita.

Christian Poulsen è un personaggio pessimo. Un provocatore che a palla

lontana non la smette di pizzicarti, di colpirti ai fianchi con piccoli cazzotti, di salirti sui piedi per far sentire i tacchetti, insomma, uno che ricorre all’intero armamentario del marcatore mediocre. Per di più ti ingiunge di tacere quando

gli dici «Fallo quando ci contendiamo la palla, se ne hai il coraggio», e più lo

mandi a quel paese più ride e ti prende in giro. Per fortuna non l’ho più ritrovato in campo, nemmeno nei due anni in cui ha giocato per la Juventus,

perché non avrei resistito all’impulso di dargli una scarpata, e mi sarei fatto buttare fuori. Ma nel nostro codice di giocatori una scarpata è una scorrettezza

accettata, uno sputo no, uno sputo è una vigliaccata. Ed è questo che continua

a bruciarmi, anche a distanza di anni.

L’episodio è davvero sgradevole, e in federazione mi annunciano un’ondata

mediatica negativa di enormi proporzioni. In effetti arriva, e supera le peggiori

attese. È un massacro. Uno tsunami. Accetto tutto, sono consapevole di aver

sbagliato, ma allo stesso tempo annoto una volta di più il pregiudizio

antiromano e la sostanziale antipatia che ispira molti commenti. Sono reazioni

che ormai ho imparato a sopportare e soprattutto a ignorare, ma non a

dimenticare, ed è chiaro che alla lunga peseranno sulla scelta di abbandonare

la Nazionale. C’erano già state situazioni difficili in azzurro, anche se non così, e avevo sempre avuto l’impressione che i media del Nord aspettassero

l’episodio giusto per fare la morale non soltanto a me, ma a Roma tutta. Forse

era un contrappeso all’indulgenza che si leggeva, non solo tra le righe, nei commenti di stampa e televisione romane. Okay. Però uno va in campo per la

sua gente, e in quei giorni complicati – lo ribadisco: perché avevo sbagliato io –

avverto con grande chiarezza che non tutta l’Italia mi sta tirando le orecchie

con una severità, come dire, affettuosa. Tipo le paternali che fai a tuo figlio quando combina una scemenza: lo rimproveri anche duramente, ma resta tuo

figlio. Altro che tirare, qui c’è chi le orecchie me le vorrebbe proprio tagliare.

Per difendermi, la federazione ingaggia un avvocato di grido come Giulia Bongiorno, la stessa che ha difeso Andreotti. Walter Veltroni, sindaco di Roma

con il quale si è creato un eccellente rapporto umano, spedisce all’Uefa una lettera nella quale – pur condannando il mio gesto – assicura di non

riconoscermi in quel bulletto, e dà testimonianza delle molte occasioni

benefiche nelle quali non mi sono risparmiato al suo fianco. Ecco, questo è ciò che intendo per “severità affettuosa”: riconoscere l’errore accettando la

conseguente punizione, ma dopo aver fatto presente che si è trattato di un raptus, non di un comportamento abituale. Con questa lettera e l’arringa della

Bongiorno – mi assicurano tutti, Carraro in testa – la commissione giudicante

non calcherà la mano. Così, quando arriva la sentenza di tre giornate, resto francamente deluso, perché speravo di cavarmela con due: mi giurano che lo

sconto ci sia stato, da quattro a tre partite, ma intanto sarà ben difficile rigiocare in quell’Europeo, dovremmo arrivare in semifinale. Comunque il

problema non si pone: quello è il torneo del famoso “biscotto” fra Svezia e Danimarca, una settimana dopo la squalifica siamo già tutti a casa. E io, fuori

dal raccordo anulare, sono più o meno il pericolo pubblico numero uno.

Il secondo flop in un grande torneo costa la panchina a Trapattoni. Per sostituirlo, la federazione sceglie l’allenatore più importante in circolazione, Marcello Lippi, reduce dal suo secondo ciclo juventino. Fantastico, penso.

L’ultima volta che ci siamo affrontati, in febbraio, la Roma ha vinto 4-0 e io non ho resistito alla tentazione del famoso “quattro e a casa” rivolto a Tudor,

che parlava troppo. Qualcuno ha scritto che l’avevo dedicato anche a Lippi: falsità totale, ma siccome non ci si era più incontrati non c’era stata l’occasione per chiarire. E adesso, dopo quel che ho combinato all’Europeo, mi chiedo con

un filo d’ansia cosa possa pensare di me il nuovo c.t. della Nazionale.

Salto la prima partita, un’amichevole in Islanda poco dopo Ferragosto,

perché sono acciaccato. La Roma lo comunica ai medici azzurri, nessun

problema. All’inizio di settembre sono in programma due partite di

qualificazione mondiale, a Palermo contro la Norvegia e poi in Moldavia: siccome non posso giocare la prima perché devo scontare l’ultimo turno di squalifica, vengo autorizzato a proseguire gli allenamenti con la Roma – sono

un po’ indietro – e a unirmi al gruppo azzurro soltanto la sera della partita contro i norvegesi. Quella stessa mattina però, in una sgambata con la

Lodigiani al Flaminio, vengo colpito alla caviglia e finisco negli spogliatoi con

la borsa del ghiaccio. Il dottor Brozzi chiama Castellacci, il suo omologo azzurro, per dirgli che non se ne fa niente, non sono in condizioni di giocare in

Moldavia, meglio restare a Roma a seguire le terapie del caso. Una procedura

normale, già seguita altre volte, non certo un modo per marcare visita.

Immaginate quindi lo sconcerto quando, un’ora dopo, arriva in sede un fax della federazione nel quale si richiede comunque la mia presenza a Palermo

per un controllo medico. Non c’è ancora l’esplicita ostilità di una visita fiscale, ma il messaggio è chiaro: non si fidano.

Mi imbarco per la Sicilia il mattino dopo con la sensazione che le prossime

ore saranno decisive per il mio futuro in Nazionale. Lippi ha bisogno di

parlarmi, l’ha detto a Vito che, conoscendo il carattere di entrambi, teme si possa arrivare a un confronto acceso. Quando sbarco al Mondello Palace,

l’albergo che ospita la comitiva, la squadra è fuori per l’allenamento

defatigante. L’atmosfera sembra allegra. Magari con un po’ di fatica, perché il

2-1 di Toni è arrivato soltanto a dieci minuti dalla fine, ma abbiamo battuto la

Norvegia. Arriva il pullman e il primo compagno che abbraccio è De Rossi: la

sera precedente ha debuttato, e ha segnato pure il primo gol. Poi mi vede Lippi, mi viene incontro sorridendo, mi chiede come sto e mi dice che dopo

mangiato, mentre gli altri riposano, vorrebbe incontrarmi da solo. Non sembra

mal disposto, e nessun medico mi fissa un appuntamento per la visita. Non capisco. Mangio in fretta un piatto di pasta, a questo punto non vedo l’ora di

parlare col c.t.

«Caro Francesco, dobbiamo cominciare a conoscerci meglio» è il

preambolo di Lippi, «perché nei prossimi due anni passeremo parecchio

tempo assieme, e io ti chiederò molto. Avrai letto sui giornali qualche mia intervista, i passi in cui dico che ho accettato di guidare la Nazionale perché

sono convinto di poter vincere il prossimo Mondiale. Ecco, devi sapere che se

mi sono sbilanciato così è perché sono



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